giovedì 31 marzo 2016

CANNOT BRAIN TODAY, I HAS THE DUMB

È primavera,
I can't brain.
Si sente proprio che si avvicina la primavera (si sente dal rumore che fanno le mie balle che si spaccano - e non mettiamo in dubbio che mi siano cresciute due palle così), si vede anche dalla quantità di cacche d'uccello che copre il vialetto d'ingresso, che bello. Sentono il cambio di stagione anche la mia emotività, la mia creatività e il mio stanco corpicione, non ho sbatta di fare NIENTE tranne grattarmi l'ombelico mentre rifletto sul nulla cosmico per ore, se solo riuscissi a farmi pagare per fare ciò la mia vita sarebbe completa.

sabato 26 marzo 2016

MA COSA NE SAI, TU?


Vita sociale che mi riprometto costantemente di NON avere ma in cui poi mi trovo invischiata perché non riesco a dire sempre di no, e/o perché ascolto la voce che dovrebbe essere matura e assennata che mi dice ogni tanto devi pur uscire di casa, figlia mia!... no ma cosa ne sai, tu??!
È che a casa al momento ancora non scrivo con regolarità, ma almeno leggo o mi faccio i cazzi miei che è sempre e comunque cosa buona e giusta. In casa sono tranquilla e non cedo alla tentazione di dispensare consigli non richiesti soltanto per avere un argomento di conversazione che esuli dagli argomenti che interessano a me ma non agli altri.
Domani esco a pranzo con marito, suocera, cognati, nipoti e mi vien già da piangere non per la compagnia ma per la sola idea di un pranzo lungo almeno quattro ore che mi terrà attaccata alla realtà da cui invece cerco disperatamente di fuggire. Ma non era "Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi" ??!!

martedì 15 marzo 2016

VOCE DEL VERBO "BOICOTTARSI"


Oggi sto aggiustando e terminando un racconto proprio carino e che, almeno per ora, sembra destinato a non durare più di una decina di pagine (non posso avere sempre 'sta diarrea di parole, insomma...). Mi piacerebbe tanto ma davvero tanto riuscire a finirlo senza boicottarmi prima, giacché non intendevo proporlo per entrare in lizza per il premio Nobel. 
Signore Iddio e Santi Protettori degli Scrittori tutti, se mi sentite, per favore tirate un fulmine in culo alla Fräulein Rottenmeier che è in me. Solo per questa volta, VI PREGO.

lunedì 14 marzo 2016

METAFORE PERFETTE

Ripensando agli ultimi quattro giorni trascorsi, guardandoli con un po' di distacco, ho la netta impressione di aver vissuto due vite completamente diverse, e che in confronto ai miei sbalzi d'umore le montagne russe più grandi e alte dell'universo sono la scala mobile di un centro commerciale.
Giovedì sera, vigilia della partenza per Venezia, ero uno straccetto usato che a mezzanotte meno un quarto ancora non aveva preparato la valigia. Quel ciclo che aveva perso due treni e tre coincidenze ha deciso di arrivare venerdì intorno all'una di notte mentre già ero piegata in due per i crampi, in lacrime, mezza dentro e mezza fuori dalla valigia, e mentre mi trascinavo da una stanza all'altra cercando di rendermi conto in tempi utili se, come spesso accade, stavo portando via cose inutili e dimenticando l'essenziale (alla fine ho solo portato via della roba in più, che non è stato grave finché non ho dovuto trascinare un trolley di tipo venticinque chili su e giù per i ponti di Venezia).
Poi tra venerdì e ieri pomeriggio alle tre e mezza il mondo si è annullato. La depressione, l'ansia, il mal di schiena, i crampi... tutto si è annullato, sono stata benissimo, c'era solo la Piccola Me felice e spensierata, quasi senza appetito, talmente instancabile da fare letteralmente un buco a uno stivale per il troppo camminare. Poi ovviamente sono tornata a casa e ho ritrovato tutto quello che avevo lasciato, e mi è presa l'angoscia, ma dopo aver messo una lunga notte di sonno tra il rientro e l'inizio di una nuova settimana la vita si è un po' riassestata. 
Credevo che avrei pensato molto alla Lennie mentre ero a Venezia, credevo che avrei visto la città con gli occhi con cui l'avevo guardata anni fa standoci per un po' insieme a lei e invece non mi è successo. Ho fatto il suo nome più di una volta, era inevitabile, ma senza grandi sentimenti.
Credevo, pensandoci giorni prima di partire, che se avessi trascorso più della canonica mezza giornata a Venezia quella poi mi avrebbe stregata e avevo ragione, ho lasciato pezzetti di cuore un po' dappertutto tra le calli, piazza San Marco e la lunga via degli alberghi dopo Palazzo Ducale che non avevo mai ammirato con il buio, e che d'ora in poi saranno un rifugio meraviglioso in cui correre quando sarò di nuovo triste.
Ho parlato così tanto con la Ele che non mi ricordavo più perché avevo deciso di allontanarmi da lei. A mente fredda credo di aver capito almeno in parte la ragione, ma mi interessa così poco adesso che non mi voglio dilungare. Credo anche che non dovrei, che per una volta potrei dispensarmi dal fare a pezzi i miei sentimenti per analizzarli e scoprire come sono fatti dentro, per una volta potrei tenerli come sono, immacolati, e dire semplicemente grazie per quello che ho avuto perché è stato bellissimo e mi ha arricchita.
Domenica, smadonnando per trascinare il trolley pesantissimo su e giù per il ponte vicino alla stazione che non so di quanti scalini sia composto ma a me sono sembrati ottomila, ho pensato che quella fatica e il peso del trolley erano una metafora perfetta per rappresentare la mia vita com'è stata negli ultimi tempi: un'inutile, pazzesca sfacchinata. Ma la domanda utile in tutto ciò è... la valigia chi l'aveva preparata? Chi l'aveva riempita con cose non necessarie manco la destinazione fosse il pianeta Marte dove non ci sono negozi per una eventuale emergenza? Io, certo. Io ho riempito quella valigia e sono sempre io a riempirmi la vita di pesi da portare su e giù per un numero incalcolabile di gradini, in un continuo salire e scendere senza scopo (vabbè, magari mi viene un bel culo a fare tanto movimento, ma di bei culi n'è pieno il mondo).
Ho capito che se non torno a scrivere e a creare sul serio non sarò mai più felice. Solo di questo ho bisogno, di riuscire ad esprimermi come mi riesce anche se non sforno capolavori, di essere libera di avere un mondo interiore da ragazzina, forse persino un po' sciocco e superficiale, perché senza tutto questo, quando non è terribile la mia realtà manca di un tassello fondamentale.
Avevo messo da parte tutta la mia spontaneità, i sogni e le fantasie perché credevo che senza sarei stata meglio, che sarei stata più "concreta" e mi sarei sentita sollevata: non è stato così, e adesso è arrivato il momento di tornare indietro e di concentrarmi unicamente sul divertimento, non su quello che dovrà accadere dopo.

lunedì 7 marzo 2016


So che il distacco emotivo di questi ultimi giorni, l'apatia, la mancanza di energia vitale e insieme anche la tensione, e la depressione profonda di ieri e di oggi sono stati destinati a passare, perché sono dovuti al ciclo che quando ritarda mi fa sempre penare in questo senso.
Saperlo non mi fa sentire meglio, ci sono momenti in cui non posso fare a meno di disperarmi, in cui posso ripetermi allo sfinimento che sono una donna forte, che posso farcela, che tutto va bene sentendomi solo peggio, perciò non ci provo più. Non tento più di cambiare quella che sono in questi momenti o di abbellire quella specie di cantina nera e umida in cui sprofondo per giorni perché è un insulto a qualcosa che fa parte di me. Qualcosa di sgradevole, certe volte persino spaventoso, ma tanto mio quanto i giorni in cui cammino a un metro da terra.
Però mi chiedo, mentre sprofondo, se non dovrei agire diversamente. Quando vorrei solo restare chiusa in un bozzolo di coperte e sentirmi misera in santa pace e solitudine e invece mi alzo dal letto, anche se so che mi ci vorranno delle ore per dare una spazzata al pavimento, mettere insieme pranzo e cena e lavare due piatti, mi chiedo allora, come ho sempre fatto in passato, se non starei meglio mandando giù qualche antidepressivo, solo per un po', o usando un cerotto a base di ormoni per regolare un ciclo che vuole fare sempre quello che gli pare con pesanti conseguenze. Spesso mi rispondo che sì, starei meglio, e che servirmi di questi mezzi per migliorare la qualità della mia vita dovrebbe essere un mio preciso dovere, tuttavia non arrivo mai a farlo davvero. Sono sul punto di chiamare uno specialista o di andare semplicemente dal mio medico, del resto mi ha già prescritto degli antidepressivi anni fa, antidepressivi e ansiolitici che alla fine non ho mai preso. Mi basterebbe descrivergli una giornata come quella di oggi e mi farebbe le dovute prescrizioni prima ancora che io avessi finito di parlare, e il suo studio è anche a due passi da casa, ci metterei letteralmente cinque minuti a raggiungerlo in macchina. Ma non lo faccio mai.
Quando mi succede, e mi rendo conto che consapevolmente rifiuto di cercare un rimedio e di chiedere aiuto, mi torna in mente la dottoressa Roth, protagonista di quell'orripilante romanzo di Wulf Dorn che ha due emicranie al secondo + iva e nell'ottanta per cento dei casi rifiuta gli antidolorifici anche quando le vengono offerti e penso che caspita, sono proprio come lei. Mi ricordo che nella mia acidissima recensione su aNobii ho scritto qualcosa come eh certo, per forza non vuole prendersi due aspirine, altrimenti come potrebbe poi romperci le balle ogni due per tre con la sua maledetta emicrania?! quindi, forse, anch'io ho un mio interesse nel non voler guarire. 
È vera una cosa, però, e cioè che io le palle non le rompo più a nessuno, nemmeno a Omar. Quando sento il bisogno di piangere e lui è in casa mi ritiro dove non può vedermi, dove non può sentire che mi soffio il naso in continuazione. Con lui rido, sorrido, parlo. Lo abbraccio e lo bacio, gli ricordo che lo amo perché non debba ancora sopportare il peso di una moglie depressa dopo un'estenuante giornata di lavoro. Con le amiche sono la prima ad offrire sostegno, a sdrammatizzare, a fare casino in palestra. Le ragazze con me ridono e tutti sono felici della mia compagnia. Tutti. E così nessuno sa più quello che provo veramente, quello che sento quando mi ritrovo da sola e devo fare i conti con me stessa, quando mi tolgo il costume di donna brillante e altruista e ne sento il peso dalla testa ai piedi. Allora, che succede? Se questo stato non mi serve per attirare l'attenzione, perché esiste?
È una mia scelta e non posso incolpare qualcun altro delle mie azioni, nemmeno di quelle automatiche come questa. Quando mento a me stessa e agli altri lo percepisco, ma ancora non riesco a fare diversamente. Non riesco più a lasciarmi andare. Potrei trovarmi di fronte a un'altra persona satura delle mie paturnie che non ha il coraggio di dirmi la verità, che non vuole più ascoltarmi e tuttavia tace, ma che a furia di tacere e accumulare un giorno mi vomiterà in faccia tutto quello che ha trattenuto e con i dovuti interessi.
Forse anch'io finirò per vomitare la mia rabbia addosso a qualcuno prima o dopo, forse a qualcuno che non se lo meriterà, ma non è così che va la vita? Non è così per tutti, bene o male? Anche se no, io non sono una che sbotta, sono una che conserva tutto, che si macera e si guasta piuttosto che essere spiacevole. Non più come una volta, adesso qualche sassolino riesco a togliermelo dalla scarpa con molto garbo e senza melodrammi, ma il tratto da percorrere di questa strada è ancora tanto lungo, ed è tutto in salita. 
Durante questi miei giorni in cantina sono falsa. Metà delle bellissime parole che mi escono dalla bocca sono parole vuote, prive di sentimento. Metà di quello che faccio "nella socialità" mi costa una fatica tale che quando apro gli occhi la mattina il mio primo pensiero è "non vedo l'ora che sia sera per tornare a letto". Non provo più trasporto per quasi nessuno, non ho più amore per i miei vecchi sogni e non posso farci niente.
Sembra tutto nero messo così, vero? Tutto sgradevole, disgustoso, terribile... eppure è qualcosa di autentico, che riconosco come mio, e per questo io in qualche modo riesco, se non ad amarlo, sicuramente a rispettarlo. Sto male in questa cantina buia e umida, ma è mia e la voglio a prescindere che mi serva o meno viverci dentro, a prescindere da tutto, anche se la sua essenza non è il preludio romantico a una rinascita, anche se non è come la chiusura estrema prima di una massima espansione o il respiro trattenuto prima di un grido di gioia. Anche se è soltanto un buco nero in cui, per cicli più o meno lunghi, continuerò a precipitare per tutta la vita.