Otto anni fa ho scritto un romanzo di 120 pagine che ha per protagonista una ragazza di nome Camilla, detta Ginger per il colore dei capelli, che suona la chitarra e canta in un gruppo con altre tre amiche (e lo trovo un fatto curioso dato che ancora non mi piaceva nessun gruppo, ascoltavo solo musica pop di merda da quattro soldi e una stagione appena).
Non so esattamente perché mi è successo, ma ho aperto una scatola per cercare una vecchia busta di ritagli di giornale e invece mi è capitato in mano questo malloppo, che avevo scordato e che adesso mi fa una gran tenerezza.
Otto anni sembrano una vita, e 120 pagine sono state una sberla emotiva che mi serviva proprio, giacché in questi giorni non faccio che piangermi addosso e pensare che ho perso la voglia di scrivere che avevo una volta (e che ho mal di pancia tutti i giorni) e che forse non la recupererò più.
Ma non è mica la prima volta che lo dico, credo di avere ancora una tonnellata di diari che provano quante altre volte ho giurato che avrei mollato, che mi sarei dedicata a fare qualunque altra cosa che non fosse scrivere perché tanto non ero capace di farlo, scrivevo schifezze, tutti erano più bravi di me, non aveva senso provare, tanto l'editoria è una merda e vanno avanti solo i paraculati e via di seguito. Sono tutte volgarissime scuse per non tentare, volgarissime scuse per rimandare, per non affrontare la paura di fallire, che poi il concetto di "fallimento" non esiste, al massimo si ottiene un risultato diverso da quello che si era sperato ma non si fallisce.
Lo dico sempre a tutti, incoraggio chiunque mi parli dei suoi progetti futuri e relativi tentennamenti...vai, buttati, devi provare, non hai niente da perdere...perché non sono capace di seguire i consigli che tanto generosamente dispenso al prossimo??!
Ciao!
RispondiEliminaQuesto post mi ha fatto un gran bene. Una sferzata di energia, contro l'ossessione di una creatività efficiente, performante, funzionale, che oggi va così di moda. È vero: con noi stessi spesso giochiamo a rincorrerci con delle scuse, delle strategie per evitare così il rischio di esporci e di essere forse definiti, se questo pure avverrà, in un ruolo che non ci starà bene, che non è come credevamo. Ma in fondo niente è come si credeva che fosse; le cose che si fanno non sono lo specchio di quello che siamo davvero, ma solo un piccolo flash. Siamo anche fatti di quello che non abbiamo saputo fare, o che non abbiamo tentato, o che non abbiamo scritto pur scrivendolo, ma in ogni modo non siamo mai definibili in un solo progetto, cristallizzati o mummificati; e poi anche se il risultato non sarà come si credeva, potrebbe nascondere qualche chiave magica e importante, qualche apertura per qualcuno, a nostra insaputa. Secondo me vale sempre la pena o la gioia di provare, o di pentirsi di aver provato, ma anche di ricredersi di quel pentimento. E in conclusione: chi non opera non falla:
in gamba per tutto
luigi
Caro Luigi, non potevi trovare parole migliori di quelle che hai usato per commentare.
RispondiEliminaChi non opera non falla.
A volte, nello struggimento, mi sembra che non tentare sia un male infinitamente minore che provare ed essere rifiutati, o scoprire che il sogno che mi ha sempre tenuta in vita in realtà non ha più nessuna importanza, ma so benissimo che è camminare senza sosta in questo limbo fatto di pensieri e inutili speculazioni, la vera condanna. E tuttavia è così difficile abbandonare le abitudini, anche quelle al dolore, e dio solo sa il perché...
Grazie per essere passato.
Ti mando un grande abbraccio.