lunedì 7 marzo 2016


So che il distacco emotivo di questi ultimi giorni, l'apatia, la mancanza di energia vitale e insieme anche la tensione, e la depressione profonda di ieri e di oggi sono stati destinati a passare, perché sono dovuti al ciclo che quando ritarda mi fa sempre penare in questo senso.
Saperlo non mi fa sentire meglio, ci sono momenti in cui non posso fare a meno di disperarmi, in cui posso ripetermi allo sfinimento che sono una donna forte, che posso farcela, che tutto va bene sentendomi solo peggio, perciò non ci provo più. Non tento più di cambiare quella che sono in questi momenti o di abbellire quella specie di cantina nera e umida in cui sprofondo per giorni perché è un insulto a qualcosa che fa parte di me. Qualcosa di sgradevole, certe volte persino spaventoso, ma tanto mio quanto i giorni in cui cammino a un metro da terra.
Però mi chiedo, mentre sprofondo, se non dovrei agire diversamente. Quando vorrei solo restare chiusa in un bozzolo di coperte e sentirmi misera in santa pace e solitudine e invece mi alzo dal letto, anche se so che mi ci vorranno delle ore per dare una spazzata al pavimento, mettere insieme pranzo e cena e lavare due piatti, mi chiedo allora, come ho sempre fatto in passato, se non starei meglio mandando giù qualche antidepressivo, solo per un po', o usando un cerotto a base di ormoni per regolare un ciclo che vuole fare sempre quello che gli pare con pesanti conseguenze. Spesso mi rispondo che sì, starei meglio, e che servirmi di questi mezzi per migliorare la qualità della mia vita dovrebbe essere un mio preciso dovere, tuttavia non arrivo mai a farlo davvero. Sono sul punto di chiamare uno specialista o di andare semplicemente dal mio medico, del resto mi ha già prescritto degli antidepressivi anni fa, antidepressivi e ansiolitici che alla fine non ho mai preso. Mi basterebbe descrivergli una giornata come quella di oggi e mi farebbe le dovute prescrizioni prima ancora che io avessi finito di parlare, e il suo studio è anche a due passi da casa, ci metterei letteralmente cinque minuti a raggiungerlo in macchina. Ma non lo faccio mai.
Quando mi succede, e mi rendo conto che consapevolmente rifiuto di cercare un rimedio e di chiedere aiuto, mi torna in mente la dottoressa Roth, protagonista di quell'orripilante romanzo di Wulf Dorn che ha due emicranie al secondo + iva e nell'ottanta per cento dei casi rifiuta gli antidolorifici anche quando le vengono offerti e penso che caspita, sono proprio come lei. Mi ricordo che nella mia acidissima recensione su aNobii ho scritto qualcosa come eh certo, per forza non vuole prendersi due aspirine, altrimenti come potrebbe poi romperci le balle ogni due per tre con la sua maledetta emicrania?! quindi, forse, anch'io ho un mio interesse nel non voler guarire. 
È vera una cosa, però, e cioè che io le palle non le rompo più a nessuno, nemmeno a Omar. Quando sento il bisogno di piangere e lui è in casa mi ritiro dove non può vedermi, dove non può sentire che mi soffio il naso in continuazione. Con lui rido, sorrido, parlo. Lo abbraccio e lo bacio, gli ricordo che lo amo perché non debba ancora sopportare il peso di una moglie depressa dopo un'estenuante giornata di lavoro. Con le amiche sono la prima ad offrire sostegno, a sdrammatizzare, a fare casino in palestra. Le ragazze con me ridono e tutti sono felici della mia compagnia. Tutti. E così nessuno sa più quello che provo veramente, quello che sento quando mi ritrovo da sola e devo fare i conti con me stessa, quando mi tolgo il costume di donna brillante e altruista e ne sento il peso dalla testa ai piedi. Allora, che succede? Se questo stato non mi serve per attirare l'attenzione, perché esiste?
È una mia scelta e non posso incolpare qualcun altro delle mie azioni, nemmeno di quelle automatiche come questa. Quando mento a me stessa e agli altri lo percepisco, ma ancora non riesco a fare diversamente. Non riesco più a lasciarmi andare. Potrei trovarmi di fronte a un'altra persona satura delle mie paturnie che non ha il coraggio di dirmi la verità, che non vuole più ascoltarmi e tuttavia tace, ma che a furia di tacere e accumulare un giorno mi vomiterà in faccia tutto quello che ha trattenuto e con i dovuti interessi.
Forse anch'io finirò per vomitare la mia rabbia addosso a qualcuno prima o dopo, forse a qualcuno che non se lo meriterà, ma non è così che va la vita? Non è così per tutti, bene o male? Anche se no, io non sono una che sbotta, sono una che conserva tutto, che si macera e si guasta piuttosto che essere spiacevole. Non più come una volta, adesso qualche sassolino riesco a togliermelo dalla scarpa con molto garbo e senza melodrammi, ma il tratto da percorrere di questa strada è ancora tanto lungo, ed è tutto in salita. 
Durante questi miei giorni in cantina sono falsa. Metà delle bellissime parole che mi escono dalla bocca sono parole vuote, prive di sentimento. Metà di quello che faccio "nella socialità" mi costa una fatica tale che quando apro gli occhi la mattina il mio primo pensiero è "non vedo l'ora che sia sera per tornare a letto". Non provo più trasporto per quasi nessuno, non ho più amore per i miei vecchi sogni e non posso farci niente.
Sembra tutto nero messo così, vero? Tutto sgradevole, disgustoso, terribile... eppure è qualcosa di autentico, che riconosco come mio, e per questo io in qualche modo riesco, se non ad amarlo, sicuramente a rispettarlo. Sto male in questa cantina buia e umida, ma è mia e la voglio a prescindere che mi serva o meno viverci dentro, a prescindere da tutto, anche se la sua essenza non è il preludio romantico a una rinascita, anche se non è come la chiusura estrema prima di una massima espansione o il respiro trattenuto prima di un grido di gioia. Anche se è soltanto un buco nero in cui, per cicli più o meno lunghi, continuerò a precipitare per tutta la vita.

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