giovedì 8 marzo 2018

Arriva di nuovo un giorno in cui niente mi consola, NIENTE. 
Tino sta morendo, e non ne parlo perché non voglio sentirmi dire «Ma che tragedie fai, È SOLTANTO UN GATTO!» perché so che se dovesse capitarmi non risponderei di me. Se ne va ancora abbastanza giovane e non posso fare niente per curarlo, posso solo aspettare sabato pomeriggio per l'appuntamento concordato con la veterinaria - perché io non ce la faccio a portarcelo prima e deve farlo il marito. Di gatti ne ho già portati a morire in passato, e ne ho abbastanza. No, io Tino lo saluto sulla porta di casa,e poi mi immagino che sia libero di andare in giro a viversi le sue avventure come in fondo avrebbe sempre voluto fare, perché lui non è mai stato veramente un gatto di casa e lo so che a tenerlo rinchiuso, anche se così è stato protetto, gli ho fatto un dispetto. Appena ci riusciva mi scappava dalla porta d'ingresso, correva per il giardino come un matto e gli mancava veramente poco coraggio per uscire dal cancello e non tornare più indietro. Tanto lui della strada non si ricordava niente, secondo me, anche se è stata la strada a portarcelo undici anni fa. Non si ricordava quanto è pericolosa perfino per noi esseri umani. Adesso non si muove quasi più, non prova a scappare né mi segue più giù per le scale cercando puntualmente di farmi inciampare, e non mi tira più i capelli né mi pianta le unghie sulla faccia perché non ha altro modo di dimostrare affetto. Mi guarda con un muso triste e infelice e le unghie mi sembra di sentirle dentro il cuore. Penso a cose stupide, insensate. Tanti anni di esperienza e tanti gatti morti eppure non ho mai imparato che affezionarsi alla fine porta un grandissimo dolore. Mi sono dimenticata troppo in fretta questo inscindibile binomio. Passerà tutto. è ovvio, ma intanto? Che cosa faccio, nel frattempo? Come faccio a non annegare? Magari stavolta annego. Non per il gatto, perché il gatto non mi appartiene come non mi appartiene nessuno, e segue la sua strada. Annego per tutto il resto, per l'insieme, non per i pretesti per star male. È che sono stanca, e non ne esco. Non voglio vedere nessuno, non voglio sentire nessuno e non voglio parlare, perché se comincio a parlare ricomincio con la solita tiritera che avevo giurato di non ripetere più - ci ho provato, va bene? Stavolta è andata male. Sono tornata indietro di mille passi - ho persino ricordato il 1994. Potevo restare lesa per sempre. Io che oggi non prendo niente se non ho letto tutte le clausole del contratto - "Ti faccio passare il mal di testa ma intanto ti intossico il fegato: prendere o lasciare" - allora non ci ho proprio pensato, ho buttato giù tutto eppure me la sono cavata, sono sopravvissuta, non mi si è bruciato il cervello. Ma adesso mi chiedo, perché? Se c'è un motivo, io ancora non l'ho visto, non l'ho capito. Mi sa che io non ho capito niente della vita in generale, mi devo essere persa qualche pezzo per strada e poi sembro anche un'ingrata - hai avuto un'altra occasione, ne hai avute centomila fino ad oggi. Hai la vita, la salute, perché non vivi? Perché non sei felice? Già, perché. Sono un'ingrata, tra poco con un gatto di meno. Nel male mi rendo conto che sono contenta di non avere figli. Mi vengono i brividi se penso a che madre di merda sarei. Io meriterei di stare da sola, imbozzolata nei miei egoistici dolori, a bagno in questo spreco di lacrime, e penso di esserci vicina, a questa solitudine. Se recido i legami è vero, non posso ricevere amore, ma non posso nemmeno ricevere dolore. 

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