domenica 20 novembre 2011

OFF TOPIC (con una LIEVE punta di autocompiacimento)

Non so perché stasera mi sono messa a rileggere qualche pagina a random di questo romanzo, ma so che sono ancora tramortita dall'onda dei ricordi.
L'anno prossimo lo finisco, stavolta per davvero.


Dopo aver steso quel velo immacolato sul corpo di Virginia, Nika si avvicinò all'infermiera e con un gesto inaspettato la condusse verso la porta. Era buffo, sembrava davvero che anche in quel caso i ruoli si fossero invertiti, e che Nika non fosse più la malata anche se in realtà lei lo era. Ma forse Doc alla fine aveva avuto ragione, e il suo arrivo lì aveva portato lo scompiglio che precede l'inizio di una nuova era. Non c'era rivoluzione senza sangue, lo diceva anche la storia, e per un cambiamento occorreva sempre una forte scossa. E lei aveva avuto e provocato entrambi i fattori necessari.
Quel giorno si sentiva più pazza di quanto non si fosse mai sentita in tutta la sua vita con i genitori, e in tutti i giorni che aveva trascorso sino a quel momento nell'ospedale. Era pazza perché anziché comportarsi come sarebbe stato logico per tutti assecondando il suo stato interiore, stava trattenendo tutto il male e l'orrore dentro di sé. Era folle perché l'aveva rinchiuso in quella prigione che era stata la sua mente invece che tornare lei stessa in quella cella. Apparentemente sarebbe stata la cosa più semplice da fare: si sarebbe di nuovo dimenticata di se stessa e del suo corpo e senza di quello, non avrebbe avuto nessuna necessità e nessun pensiero tranne quello di attendere che la morte sopraggiungesse. Eppure, non c'era nulla di semplice in quella prospettiva. Una lunga attesa poteva essere una punizione sufficientemente pesante per ciò che aveva fatto? Non sarebbe stato peggio che continuare a vivere con quel pensiero a trafiggerle il cuore ogni giorno, ad ogni respiro e battito di ciglia? Si stava impegnando a pensare alla sua vita come ad una punizione costante per ciò che era sempre stata: una malata, una pazza che aveva fatto fuggire la madre e fatto commettere al padre degli errori imperdonabili, che aveva venduto i suoi ricordi in favore di una nuova vita che aveva distrutto sul nascere con le sue stesse mani. Avrebbe davvero voluto punirsi rendendo la sua vita uno scotto quotidiano, ma non era quello a mandarla avanti. Era il suo bisogno morboso, il vero motore. Keith era la sua vera malattia. La sua croce, la sua condanna, il veleno che l'aveva contaminata e l'unico che poteva fungere da antidoto per salvarla. Era l'ostinazione a mantenerla in vita, a non permettere a se stessa di tornare ad imprigionarsi in quella rete di spine che era la sua mente, dove in quel momento c'erano il male e il dolore che ruggivano contro le sbarre. Erano una bella bambolina coi boccoli neri e le labbra di fragola che la imploravano tra le lacrime di aprire la porta e al suo diniego si trasformavano in mostri, con le bocche piene di denti aguzzi che grondavano saliva e sangue.  Gridavano brandendo un martello, che una volta fuori lei l'avrebbe pagata, che non ci sarebbe più stato spazio per i suoi bei germogli perché loro li avrebbero dati tutti alle fiamme. Nika  li ignorava e posava altrove le sue sensazioni ma si sentiva il cuore pesante nel petto, e chiudendo gli occhi aveva l'impressione di poter vedere l'organo spasimante malato, due volte più grosso del normale, che si contraeva e si rilassava guardandola, sputando sangue, minacciando anche lui di esplodere da un momento all'altro. Ogni cosa intorno a lei era diventata ostile, fastidiosa. Persino il sole, che Nika si ritrovò a stramaledire con tutto il cuore. Maledetto sole che quando decideva di mostrarsi sembrava far del suo meglio per illuminare il meno possibile le stanze e i corridoi. Tirava fuori solo gli avanzi dei suoi peggiori raggi, stanchi, malaticci e corti come dita mozzate,oppure si nascondeva dentro un cielo di latte, o si copriva di nuvole per non essere visto e sembrava che la cosa lo divertisse, come se fosse stato un bambino ricco e viziato desideroso di umiliare qualcuno più povero di lui. Ma quel giorno, quando in segno di lutto e di rispetto il sole si sarebbe dovuto ritirare altrove si era invece spogliato di tutto il superfluo per dare il meglio di sé. Il divo da passerella, la prima attrice, la stella nascente. Il maledetto, pensò nuovamente Nika, che spandeva senza ritegno quella luce feconda, in realtà una forza malvagia, che frugava con violenza e senza rispetto in ogni anfratto dei malati, che violentava le loro anime ed esasperava le brutture. 
Una volta fuori dalla stanza di Virginia, Nika e Julia si separarono. 
La ragazza annaspava, aveva il fiato corto come se invece di stare immobile nel corridoio stesse correndo una maratona. Sapeva di dover uscire per prendere un po' d'aria, e sapeva di doverlo fare in fretta prima che il male sempre crescente esplodesse in lei e la uccidesse. Guardare in faccia gli altri fu difficile come lo era guardare se stessa, che dopo la fuga del Clown e il suo ferimento aveva evitato ogni superficie che potesse riflettere anche solo parzialmente il suo volto. I visi dei pazienti sembravano tutti uguali sotto quell'inespressività che era un grido unanime: non può essere successo veramente. Persino Wade, sempre beffardo di fronte ad ogni situazione sembrò lievemente scosso. Nika sapeva che di lì a poco si sarebbe dimenticato di quell'episodio e di certo non avrebbe pianto per Virginia, ma per un istante anche il suo viso sembrava davvero essere diventato come quello di tutti gli altri. 
La Morte aveva festeggiato quella notte appena trascorsa insieme a Virginia lasciandosi alle spalle le pulizie del giorno dopo, gli schizzi di sangue come allegri festoni alle pareti, i pezzi di lei dappertutto e lugubri maschere tutte uguali come i camici dei dottori, le divise degli inservienti, lo spavento nelle loro anime. E tutti si erano infilati la maschera che aveva reso il loro volto identico e non avevano più nemmeno il coraggio di muoversi.
Toccava a lei fare un primo passo. Solo il Clown avrebbe potuto farlo al posto suo, soltanto lui avrebbe avuto le parole giuste pronte per ricondurli tutti verso un grado di pazzia accettabile, e se quello non poteva succedere e i malati erano condannati ad annegare nella paura la colpa era soltanto sua, del suo egoismo, del morboso bisogno di Keith.
Con un gesto meccanico Nika si passò le mani sul viso per asciugarlo. Inutile, giacché le lacrime erano un flusso costante e ininterrotto come un sistema di irrigazione guasto, ma lo fece ugualmente e raddrizzò la schiena. Anche il Clown piangeva a volte, e le lacrime nere gli strisciavano sul viso farinoso come serpenti insidiosi, ma in cuor suo trovava sempre il coraggio di andare avanti, quel coraggio per cui Nika in quel momento avrebbe ucciso. Sapeva benissimo di non avere la forza né le carte in regola per essere un leader e che nessuno l'avrebbe seguita o degnata di uno sguardo attento perché la paura ormai aveva preso a regnare sovrana, ma aveva pur sempre quei segni accanto alle labbra che parlavano chiaro, e dicevano a gran voce che lui si sarebbe comportato così, lui avrebbe trovato il coraggio, lui avrebbe guardato avanti.
E così forse, i malati avrebbero rivisto per un attimo l'ombra del Clown e pensato che magari un po' della sua forza era rimasta imprigionata tra quelle pareti.
Nika si voltò lentamente a cercare Tiny e lo individuò nello stesso punto in cui l'aveva lasciato per entrare a coprire Virginia. Se anche lui inizialmente si era messo la maschera a quel punto doveva averla già tolta, perché quando lei lo guardò lo vide diverso dagli altri. Era vivo. Spaventato ma vivo. Gli si avvicinò con il cuore che continuava a battere rabbiosamente, cercò la sua mano e la strinse forte.
“Usciamo” disse con un filo di voce, mentre Tiny piangeva in silenzio e sembrava implorarla di dirle che era tutto una finzione, che non era successo nulla di ciò che sembrava e che Virginia aveva solo inventato un'altra delle sue storie.
“Lei è là?”
Nika annuì, con le lacrime che le mostravano il mondo attraverso un vetro smerigliato.
“Dorme?”
“Sì”
“Ma si sveglia poi, vero?”
“Non lo so, Tiny. Forse sì, un giorno....si sveglierà nel posto in cui ci sveglieremo tutti quanti”
“E dove?”
“Nel Paradiso dei Matti”
“Me lo giuri?”
“Te lo giuro. Adesso usciamo"

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